Innovazione Sociale: un’azione concreta in risposta ai bisogni della collettività
“Innovazione sociale” è il nuovo concetto guida delle politiche europee, soprattutto dopo l’approvazione della Social Business Initiative della Commissione Europea.
Cosa si intende per innovazione sociale? Il dibattito, negli ultimi tempi, ha destato grande attenzione e non ha ancora trovato una direzione univoca.
Interventi diretti a gruppi vulnerabili della società e che sanno valorizzare la creatività delle associazioni di volontariato, delle organizzazioni e degli imprenditori sociali per trovare modi nuovi di rispondere a bisogni sociali impellenti a cui non arriva un’adeguata risposta né dal settore pubblico né dal settore privato [José Manuel Barroso, nel presentare la Social Innovation Europe]
L’OCSE la definisce, nella sua accezione più ampia, “come un cambiamento sociale in risposta alle sfide ed ai bisogni della collettività che implica un cambiamento”.
Al di là delle numerose disquisizioni teoriche, l’innovazione sociale è innanzitutto azione concreta in risposta ai bisogni della collettività.
Così, all’interno del consueto ciclo di interviste, questa volta, abbiamo deciso di condividere con voi le parole di Gianluca Mingozzi, Responsabile Welfare e Credito per Confcooperative Emilia-Romagna, al fine di comprendere meglio la categoria di innovazione sociale e i suoi sviluppi in Italia.
1. Quali sono i significati e le maggiori applicazioni dell’innovazione sociale?
A mio avviso, sono tre gli aspetti che caratterizzano un’innovazione di tipo sociale:
A. L’innovazione è, soprattutto, rinnovare, aggiornare, motivare e sostenere il capitale più importante delle cooperative, cioè le persone, gli operatori.
B. Poi, innovare significa essere capaci di cogliere il cambiamento dei bisogni delle persone, e se possibile, anticiparli.
C. Il terzo aspetto è quello più strutturale – organizzativo e consiste nel fare evolvere anche le forme gestionali nel modo più idoneo al cambiamento dei bisogni: gli strumenti e le forme aziendali che andavano bene 30 anni fa, non è detto che rispondano allo stesso modo oggi.
2. Nel panorama italiano, cosa si definisce impresa sociale?
L’impresa sociale permette a tutte le forme commerciali previste dal nostro codice civile, anche quella di capitale, di entrare nella gestione dei servizi alla persona senza fini di lucro.
Dietro, c’è la convinzione, o il tentativo, di estendere all’ambito dell’imprenditoria e alla cultura industriale le logiche del non-profit e viceversa. Si vuole “meticciare”, creare degli ibridi, mescolare culture che fino a ora sono state lontane e divise.
In questo caso si fa innovazione sociale per incrociare la cultura speculativa e quella non speculativa e solidaristica, sperando che ognuna prenda il meglio dall’altra.
3. Quale ruolo possono giocare cooperative e imprese sociali, che della produzione di socialità fanno la loro missione?
Tra impresa sociale e cooperazione sociale c’è un po’ di gelosia, perché questa nuova presenza può diventare un soggetto significativo in un ambito sostanzialmente egemonico per la cooperazione sociale.
In ogni caso, dobbiamo concepire l’impresa sociale anche come un’evoluzione e un completamento della cooperativa sociale.
Storicamente, in Italia, le imprese sociali sono le cooperative.
Per questo può diventare prezioso che le due forme, cooperazione sociale e impresa sociale, si scambino le migliori peculiarità: la prima si fa garante dell’impresa sociale verso i cittadini, quale soggetto che solidalmente e senza fini di lucro gestisce i servizi, da impresa con criteri di sostenibilità economica. La seconda introduce maggiore cultura e pratica imprenditoriale.
4. Ho letto una definizione di innovazione sociale che recitava così: “L’innovazione sociale scardina la tradizionale tripartizione Stato-Mercato-Non Profit: appartiene a tutti i settori, li contamina, ne accentua le intersezioni.”. E’ d’accordo con questa affermazione?
La premessa è che siamo costretti a fare innovazione anche dalla necessità di assicurare la sostenibilità economica. Con le risorse disponibili, ma sempre più calanti, non riusciamo più a fare quello che facevamo prima. Non almeno a queste condizioni.
Oggi, noi ci troviamo dinanzi ad un cambiamento epocale: l’Amministrazione Pubblica, in passato, in questo “gioco”, era protagonista erogando denaro e, così facendo, poneva gli altri interlocutori, in una situazione di dipendenza. Adesso, la vistosa diminuzione delle risorse economiche comporterà un mutamento del “gioco” e un cambiamento nella distribuzione del potere, difficile da prevedere.
5. Infine, cosa domanderebbe alle Istituzioni Pubbliche per sostenere l’Innovazione Sociale?
Certe richieste non vanno rivolte solo alle Istituzioni, ma anche alle Associazioni che organizzano e rappresentano i Cittadini e le Imprese.
Oggi, in primo luogo, c’è bisogno di persone con una nuova cultura, poliedrica, anche se ciò va a discapito della specializzazione: quella se la faranno sul lavoro. C’è bisogno di persone che abbiano fatto molte esperienze, anche all’estero. È indispensabile riuscire a mettere in gioco conoscenze e capacità trasversali. Da persone, ambienti e metodi di questo genere ci possiamo attendere la migliore e maggiore innovazione.
Analogamente la Pubblica Amministrazione è chiamata ad integrarsi. La divisione settoriale è un’eredità di un tempo ormai trascorso, non può rimanere quale unico metodo per rispondere ai problemi.
Innovare significa entrare in una logica di miglioramento continuo: del modo di agire, dei risultati. E’ uno degli aspetti del mondo in perpetuo tumulto in cui viviamo. Nel sociale e nei servizi di interesse pubblico, inoltre, l’innovazione è un imperativo volto a contrastare una “naturale” tendenza all’entropia e all’inefficienza/inefficacia dell’azione. Nella società attuale, l’innovazione comporta la rottura di barriere e confini, di incrostazioni e rigidità, di camere stagne e “diritti acquisiti”. Non stupisce che sia in primo luogo a livello di imprenditoria sociale che si avverte questa esigenza e questa tensione al cambiamento. Sono invece molto preoccupato per l’amministrazione pubblica (cui appartengo): non credo che riesca a tenere il passo. Di “pubblico”, ormai, dovremmo accettare solo l’obiettivo e il risultato: l’interesse pubblico e generale di un certo obiettivo, l’utilità sociale di un certo intervento. E tutto il resto svincolato dalle rigidità tipiche dell’apparato burocratico pubblico. Una rivoluzione, più che un’innovazione.
Carissimo Paolo,
la logica del miglioramento continuo che lei richiama non deve certamente mai abbandonarci, ma – riguardo all’innovazione – è probabilmente riferibile a quella incrementale mentre è noto che esistono altre forme di innovazione, ognuna riferibile a momenti, accadimenti e condizioni precise. Oggi ci troviamo di fronte a necessità e avvenimenti che ci spingono a chiederci se è di innovazione incrementale che abbiamo bisogno e se è quella che i tempi richiedono o se piuttosto dobbiamo pensare a qualcosa di più radicale. Non a sole modificazioni progressive, ma a veri e propri cambiamenti radicali. In questo caso, non si tratta di operare un processo di gradualità teso al cambiamento, bensì di intervenire con disegni e obiettivi nuovi.
E qui, a mio avviso, non ci sono soggetti più avanti e soggetti più indietro nella riflessione, o più o meno capaci di rispondere e gestire il cambiamento. L’elaborazione è acerba ovunque, per questo non condivido la sua preoccupazione che l’amministrazione pubblica non tenga il passo. Potrebbe essere vero se rimenassimo nel perimetro dell’innovazione incrementale: troppe sono le zavorre, normative, sindacali e, ora, anche economiche che bloccano l’amministrazione pubblica verso un processo di miglioramento e di adeguamento progressivo.
Ma in una visione che ci vede coinvolti radicalmente e tesi al cambiamento totale o quasi, guai se non ci sentissimo e fossimo anche nei fatti tutti impegnati!
Oltretutto questa pagina è dedicata all’innovazione sociale, e con le sofferenze che sta patendo il welfare – anche nella nostra regione – tutti dobbiamo, non solo percepire la necessità e l’urgenza del cambiamento, ma anche disporci e contribuirvi.
Tutti, pubblico e privato e, nel privato, non solo il non profit, non solo l’imprenditoria sociale. Credo che il motivo sia intuibile, ma per essere più esplicito: il welfare è e deve restare pubblico, che non deve significare per forza statale. Da ciò ne discende che gestori anche privati che svolgono una funzione pubblica devono scambiare di più con il decisore politico, il pubblico amministratore, per condividere obiettivi e percorsi, e lavorare gomito a gomito con la struttura operativa, livello per livello, di più e meglio di quanto già non si faccia, per costruire insieme metodi, strumenti e trovare le soluzioni ai numerosi problemi.
Per questo anche non occorre accettare, tanto meno, solo obiettivi e risultato. La vera innovazione sociale chiede integrazione ed esige collaborazione. Per questo nessuno deve mancare all’appello!
Certo che occorre operare cambiamenti anche in questi processi, in ambiti e per funzioni e obiettivi che non viene naturale pensare quali piazze di innovazione.
Ma dobbiamo provarci, anzi: dobbiamo riuscirci!
Al proposito e per rappresentare in una frase le difficoltà che ci aspettano, richiamo alcune sue parole contenute nel commento: “[…]l’innovazione comporta rotture di barriere e confini, di incrostazioni e rigidità, di camere stagne e diritti acquisiti[…]”. E le assicuro che questi vizi non stanno solo da una parte!
Si tratta per tutti noi di cambiare anche un po’ la nostra natura. Che ne pensa? Ne vale la pena? E ci riusciremo? Io dico di si. Per forza!
Gianluca Mingozzi
Responsabile Welfare e Credito
Confcooperative Emilia-Romagna